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Dicembre

Di Runa, 10/12/2025.

Mi sdraiai su quel terreno, assorbendo i fili d’erba che si schiacciavano sulla mia schiena. Fissai il cielo ricoperto di uno strato di nebbia e nuvole talmente ammassate tra di loro da impedire qualsiasi raggio di sole.

L’aria di per sé era umida, e la brezza invernale non aiutava, mi sentivo tremare dal freddo. Il cielo stava cambiando colore, e l’aria circostante si faceva più fresca e spinosa. Dalla distanza suonavano le campane che rimbombavano e rimbombavano per le vuote strade. Era tardi e a dirla tutta non sapevo cosa stessi facendo fuori.

C’era altro che ricordavo da quel momento, un mal di testa così forte, come se un chiodo mi si fosse impiantato dritto per il cervello. Il suono rimbombava e rimbombava, e le campane facevano partire quel metallo arrugginito sporco di sangue.

Non ci mise molto, quel cielo nuvoloso, prima di piangermi addosso. E ancora prima di potermelo immaginare, ecco che un paio di goccioline cominciarono a cadermi sulla pelle pallida, cadevano fredde e facevano, a contatto, un agonizzante male che continuava e continuava a ripetersi.

Nonostante tutto, non sentivo di volermi muovere, o meglio, non ci riuscivo, un intenso freddo mi teneva fermo, una strana fatica mi lasciava incollato sul pavimento, e chissà da quanto tempo fissavo quel cielo piovoso e oscuro.

A dirla tutta, mi sentivo miserabile.

Mi sentivo miserabile, ma tutti lo erano, il cielo era nuvoloso, non potevo vedere le sfumature della notte, ma non mi importava molto. Tanto era l’inverno, e non c’era niente da fare, non avevo che da guardare, se non i miei piedi scalzi sulla terra bagnata, o le mie mani pallide che stringevano l’erba fradicia, o non i miei capelli che, a contatto col piccolo ruscello, lo sporcavano di un colorito rossastro e si allungavano per la fonte come spinti da esso.

E l’aria si faceva più fredda, avevo rinunciato al poter sentirmi, al poter percepire la mia esistenza o una qualsivoglia sensazione, le mie labbra si erano fatto fredde e non sentivo più neanche il gusto della brezza invernale.

Slush, se c’era una cosa che potevo fare, era osservare, girare, guardarmi attorno, osservare il mondo che mi circondava in quella che era diventata un involucro di me stesso.

Slush, slush, slush. Desideravo che la pioggia avesse potuto risparmiarmi, ma non era così. Non potevo neanche sentirli, insidiosi e viscidi com’erano, che viaggiavano su di me, e potevo solo osservarli con il mio sguardo, ormai esterno al tutto. Miserabili bastardi, si strusciavano nel mio corpo, vermicelli e larve sulla mia pelle marcia, il gusto di carne mischiato con quello della terra, l’odore di malattia e di pestilenza, la vita ad un soffio. I miei capelli venivano spinti ancora dal ruscello, la mia carne maciullata da quelle bestioline, e venivano e venivano, osservavo quegli invertebrati strisciarmi e violarmi la carne, e non sentivo nulla, né facevo nulla, talmente il mio sguardo era esterno e il mio corpo immobile.

Il cielo era nuvoloso e io marcivo sotto la pioggia sulla terra bagnata, sporcando il ruscello di sangue.